9.1.17

Una generazione in viaggio

"...in quel momento c’era il grande movimento della Beat Generation, che di fatto si confrontava con la fase politica: due aspetti in sostanza complementari, compensativi. Noi lasciavamo le caserme e non andavamo a fare il militare, lasciavamo le scuole e non prendevamo il diploma, lasciavamo la famiglia perché non ci riconoscevamo nei valori cattolici, della patria e dell’eroe, c’eravamo rotti i coglioni di appartenere ancora, sul piano educativo, alla generazione che ci precedeva, cioè alla generazione di mio padre.
Quindi l’abbandono della famiglia, della chiesa, la fuga dalla caserma, l’abbattimento delle frontiere… per noi viaggiare era un atto creativo, perché le frontiere le avevamo già cancellate dalla testa. L’Europa l’avevamo già unita, avevamo già unito il mondo, infatti era un movimento mondiale, non era né italiano, né europeo. In questo senso si andava in India. Quando dico che andavamo in India in autostop, è perché eravamo centinaia di migliaia di persone che da tutto il mondo andavamo in India in autostop. Così le cose fanno il loro corso e diventano storia."

da Dialogo sul Gran Teatro Urbano
di Richi Ferrero con Ruggero Bianchi
da "Il Gran Teatro Urbano di Richi Ferrero.
Teatro, teatralità, teatralizzazione delle arti dal palcoscenico alla scena urbana"
a cura di Ruggero Bianchi. Celid 2001


27.2.12

San Pietro in Vincoli, il cimitero degl'impiccati, delle suore, dei preti e dei frati, dei nobili e dei neonati

Scavalcato il cancello si procedeva lungo il lato sinistro della chiesa di San Pietro in Vincoli. Una porticina e si accedeva all'interno. Ricordo bene la cappella com'era allora, dismessa ma intatta, sopra l'altare un quadro dal destino infelice. C'era la neve, era notte. Uno dopol'altro il manipolo di lane lunghe (cappelloni) si ricompattò sotto al cancello. Si usciva con il bottino: teschi e femori era ciò che restava di una e più missioni là sotto. Una scala, a fianco della cappella, portava al cimitero: il cimitero di San Pietro in Vincoli. In realtà il cimitero all'onor del sole era quello della corte circondata da portici su tre lati, il quarto era chiuso dalla Cappella. Le tombe nella spianata centrale già non c'erano più, ne restavano alcune a mo' di loculi con relative lapidi lungo i muri sotto le arcate dei portici. Ma il cimitero del mistero, quello dei diseredati, dei condannati a morte per impiccagione era sotto la cappella. Le punte colte del branco, Beriuz e Gianni il Paolo, facenti il classico, cercavano di tradurre le scritte in latino forse con troppa immaginazione, certo che le sorprese vere non mancavano. Si trattava di catacombe, i morti erano rinchiusi in loculi orizzontali ordinati, uno sopra l'altro, fino al soffitto, la maggior parte chiuse da lapidi, ma molte erano aperte e vuote. Nei corridoi si alternavano tombe di frati e suore e di tanto in tanto compariva un loculo molto piccolo con la scritta Infante! Ogni pensiero era lecito. I corridoi aprivano su piccole stanze dove i  seppelliti erano per di più aristocratici  torinesi di un tempo: marchesi, baroni e baronesse ecc. Poi qua e là grandi ceste piene di femori, tibie e teschi. Forse era ciò che restava di quei diseredati e criminali scalzati dalle stesse tombe per far posto ai nuovi più onorati ospiti. Le ragioni delle "mission" al cimitero erano due, legate ciascuna a una parte del gruppo. I più erano interessati all'evolversi di una storia "metapsicoparanormale" nata a Bardonecchia nelle estati del '67 e '68, che aveva visto e vedeva ancora protagonisti, il Beriuz e  Gianni il Paolo mentre il resto della banda-beat era interessato ad aprire i loculi dei patrizi alla ricerca di gemme e ori che non avrebbero mai trovato. In realtà questi ultimi erano degli accodati, coetani, affascinati dalle chitarre e dalle "storie" degli altri, ma già malavitosi. C'era la neve, era notte, si era allo scavalco del cancello in ferro con regolari punte a lancia. Uno o due alla volta, le chiome fluenti, passavano all'esterno regolari e veloci, ragazze comprese, quando a trovarsi in cima al cancello fu Ivan, detto "Motobasso", per via del suo Itom rimaneggiato, dalla sella troppo bassa, che a vederlo arrivare frontalmente pareva, la moto, senza conducente. Qualcuno gridò, sottovoceforte, "la pula"..."c'è madama". Una Giulia Super scura arrivava lenta da via Ciriè, Ivan, professione ladro, lasciò cadere dalla parte interna del cancello ciò che aveva in mano e con un balzo si dileguò con gli altri nel buio, che, nella Torino d'allora, era complice certo di qualsiasi fuga. Nevicò tutta la notte e per tutto il giorno che venne.
Si ritrovarono tutti alla Cava di via Principessa Clotilde 82. Motobasso non raccontò del gesto idiota, dell'aver tagliato la tela sopra l'altare, ne di averla abbandonata al cancello ma ne compì subito un'altro. Attaccò con un fil di ferro un teschio sopra al fanale della sua motobassa. Fermato da una pattuglia di vigili urbani fu denunciato per vilipendio di cadavere. Del dipinto la peggior fine, si dissolse nel luogo dove fu abbandonato.

29.1.12

Maria in Galleria

1971 La Galleria del Nuovo Romano merita il cielo di Gastini come lo stesso cielo merita il luogo, che più di ogni altro ha visto, negli ultimi duecento anni, passare avanti e indietro il pensiero della città. In quel tratto, in quella manica coperta, che congiunge Piazza Castello a Piazza Carlo Alberto,  le parole segnavano la storia anche del mondo beat torinese. La musica la si comprava li intorno, tra Maschio e il Discolo, prim'ancora di Rock and Folk. Ci si nutriva ancora di 45 giri. Allora forse un' agorà, oggi una coronaria della città in questo flusso continuo, ora lento e rado, ora spiccio e fitto. Sulle due scalinate, diagonalmente opposte, da sempre una guerra di cartelli e catene e dissuasori e di giovani vietati a stare seduti, che seduti o per di più sdraiati ci stavamo eccome impossessandoci finalmente di pezzi di città, di questa città allora veramente buia, veramente grigia, veramente deserta, veramente fredda di fatto e di respiri. Fu per rallegrare la situazione che un giorno, in galleria, nella lunga cornice di terra, tra siepini ed erbetta fecero il loro debutto una quindicina di piante di marjuana, che con grande efficacia crebbero abbastanza da formare tutte insieme il miglior momento vegetal-decorativo in Galleria. Si contava, anche avvantaggiati dalla quasi nulla conoscenza di quella specifica verdura, di una più lunga latitanza  delle maestranze giardiniere e quello fu l'errore. Decapitate,  le piantine già nobili nel loro bel metro d'altezza, furono caricate sul mezzo funebre del mondo arboreo comunale per finire comunque in fumo. Robertino non si dava pace, aveva teorizzato come la Galleria fosse una serra ideale per una produzione locale d'origine controllata. Compose fin una canzone con la sua dodici corde che di corde però ne aveva meno, con accordatura aperta, che facilitava quel simil folk americano più che alla .Dylan, dilaniato. Le parole forse erano di  Gianni Delizia, una roba del genere: Torino ti caricherò sulla nave e ti porterò in Bhutan dove non ti dovrò aspettare/non ti dovrò aspettare / Torino ti crescerà la cresta/ comincerai a cantare/ canteremo in Galleria le lodi alla maria... E qui s'inseriva, come inciso rubato "don't bogart that joint my friend, pass it over to me..." del subito mitico Easy Ryder.

21.12.11

"Con delizia e costanza" performance

1970/71(?) "Con delizia e costanza" performance. Fu nelle sale infernotte dell'Unione Culturale di via Cesare Battisti, storicissimi scantinati del primo Parlamento italiano, che Gianni Delizia e Costanza Gatti presentarono la loro performance "Con delizia e costanza". Chiaro che non ci fosse una lira da pagare per assistere a quel frammento scomposto di vita, assolutamente surreale, dove Gianni friggeva le uova ingaggiando un rapporto con quella nuova faccia senza naso e senza bocca formata dalla padella con due occhi arancioni e pelle bianca mentre Costanza seduceva il pubblico, cinquanta sessanta persone, con la sua straordinaria sensualità. Costanza tradiva Delizia deliziando il pubblico-amante mentre Delizia veniva sedotto dalle due uova al tegamino, il cui friggere era anche colonna sonora, senza sapere di certo che un tale John Cage....  più o meno una cosa del genere. Quando Delizia attore girava la testa e appariva  lo sguardo e con lo sguardo la sua faccia, eri certo di trovarti di fronte a Nosferatu, a Charles Manson, a Barbanera, al Maligno di tutte le fiabe. Volto magro e scavato con l'immancabile barba, liscia, appuntita, incolta e nera, capelli corvini lunghi e aggrovigliati. Infine lo sguardo, irraccontabile, comunque due bulbi oculari di cui uno si muoveva per i fatti suoi, quando non sostava, completamente rivolto verso il naso. Inquietante e affascinante era quando l'occhiata, lo sguardo, tra le combinazioni, diventava normale. Un satanasso simpatico, grande esperto della vita in soffitta e on the road in Turin, gran conoscitore di tutte le essenze psichedeliche e affini e attore più che discreto. L'Aids lo ha falciato non ancora quarantenne, ma la morte si è spaventata.

19.12.11

Gesù e Madonna ai Giardini Reali

1964/65(?)- Giardini Reali, scendendo da piazza Castello, passato il sottopasso, a sinistra tra i primi alberi il branco cappellone e  pacifista se la conta e sopratutto se la canta. A Gesù, Gesù assomigliava abbastanza: capelli neri, lisci, lunghi sulle spalle, barba e baffi, magro ciondolante stanco. Lei, Madonna, non assomigliava per niente alla Madonna, minigonna, capelli cortissimi , musetto magro, occhi pungenti. Quel giorno di pioggia, non si sa più la stagione, ombrelli e teli di fortuna formavano come un carapace sotto il quale respirava un'unica creatura che era buona parte del mondo beat torinese. Si trattava di decidere su quale albero impressionare con la vernice bianca il "Peace". Tra quegl' alberi uno. Se ne occupò Scimmia e chi altro avrebbe dovuto, verniciando sulla prima biforcazione di un ramo il simbolo beat della pace, visibile ancora una quindicina di anni fa.

6.12.11

Les Enfants Terribles


Les Enfants Terribles - Via Marco Polo, ci suonavano Le Teste Dure, complesso senza concorrenti in città. Bruno Avanzato, il chitarrista, masticava cycles anche quando dormiva, un volto straordinariamente espressivo da messicano stanco, gli occhi scuri e gonfi, un po’ fuori dalle orbite e le mani che strizzavano la Stratocaster come raramente, allora, si poteva sentire. Les Enfants Terribles fu con La Cava di via Principessa Clotilde il punto di riferimento, prima dell’apertura del Piper, della Beat Generation torinese, i luoghi di copertura dove si sostava a oltranza e venivano accolti "gli scappati da casa", che all'epoca erano una moltitudine. Gli anni vanno dal ’64 al ’67.  I preservativi gonfiati e appesi come arredo a Les Enfants... non piacquero a un genitore sulle tracce del figlio adolescente che denunciò la terribile oscenità, la questura chiuse il locale e non fu mai riaperto.

5.12.11

Catena e l'Indiano

1968: Catena e l’Indiano procedevano con passo futurista sul marciapiede di corso Palestro direzione via Cernaia lato negozio delle missioni. Il dialogo tra i due non s’interrompeva neanche quando Catena accelerava o rallentava il passo a seconda del procedere dello sconosciuto che gli camminava davanti. Catena  era  collegato all’ignaro passante da un elastico invisibile che doveva tenere sempre in tensione e mai lasco. L’Indiano, più normalmente, non poteva calpestare le righe perpendicolari alla strada che separavano un lastricato del marciapiede dall’altro. Per questo le nostre chiacchiere le facevamo sopra e intorno alla panchina dove almeno eravamo tutti più o meno fermi.  La panchina stava nel centro-viale di corso Palestro davanti al bar Cecchi a pochi metri da via Garibaldi.  Al bar Cecchi non ci si entrava mai, neanche se pioveva. Chi invece ci viveva, al Cecchi, erano Salvatore, il venditore di anfetamine in pillole; Metredina prima e  Magriz poi e Tarzanetto con la strana faccia d’albino biondo, finito male presto, lui e la sua pistola che esibiva troppo. A Catena succedeva di doversi fermare, talvolta anche abbastanza a lungo, specialmente di notte, quando perdeva lo sconosciuto passante che lo precedeva, magari perché era scomparso in un portone. A quel punto aspettava di agganciarsi ad un nuovo ignaro che andasse nella direzione da lui voluta. Perché quello della direzione era un problema aggiunto mica da poco nella Torino notturna del 1968 assolutamente deserta. Altra storia girare in centro di giorno dove aggancio e direzione avevano possibilità continue e infinite nel formicolare umano della città. L’indiano vestiva jeans trucidi bordati al fondo con una fettuccia a fiori, un gilè marrone di cuoio consumato sulle braccia nude ancora pulite, dalle vene integre, che avrebbe trasformato nel giro di mille giorni in tatoo – ematomi, bluastri e duri, con incredibili cavalli di amfetamina e oppio. L’Indiano, cappellone biondo fluente, spalle larghe e passo tra le righe del lastricato, non si separava quasi mai da Catena, bruno, capelli mossi, dalla trascuratezza semplice, l’impermeabile grigio e liso, raccontava visioni e sogni condendoli con la realtà, poeta e filosofo disquisiva incantandosi, parlava, diceva, si fermava improvvisamente, perso il filo perso tutto, cervello resettato, nuova storia.