27.2.12

San Pietro in Vincoli, il cimitero degl'impiccati, delle suore, dei preti e dei frati, dei nobili e dei neonati

Scavalcato il cancello si procedeva lungo il lato sinistro della chiesa di San Pietro in Vincoli. Una porticina e si accedeva all'interno. Ricordo bene la cappella com'era allora, dismessa ma intatta, sopra l'altare un quadro dal destino infelice. C'era la neve, era notte. Uno dopol'altro il manipolo di lane lunghe (cappelloni) si ricompattò sotto al cancello. Si usciva con il bottino: teschi e femori era ciò che restava di una e più missioni là sotto. Una scala, a fianco della cappella, portava al cimitero: il cimitero di San Pietro in Vincoli. In realtà il cimitero all'onor del sole era quello della corte circondata da portici su tre lati, il quarto era chiuso dalla Cappella. Le tombe nella spianata centrale già non c'erano più, ne restavano alcune a mo' di loculi con relative lapidi lungo i muri sotto le arcate dei portici. Ma il cimitero del mistero, quello dei diseredati, dei condannati a morte per impiccagione era sotto la cappella. Le punte colte del branco, Beriuz e Gianni il Paolo, facenti il classico, cercavano di tradurre le scritte in latino forse con troppa immaginazione, certo che le sorprese vere non mancavano. Si trattava di catacombe, i morti erano rinchiusi in loculi orizzontali ordinati, uno sopra l'altro, fino al soffitto, la maggior parte chiuse da lapidi, ma molte erano aperte e vuote. Nei corridoi si alternavano tombe di frati e suore e di tanto in tanto compariva un loculo molto piccolo con la scritta Infante! Ogni pensiero era lecito. I corridoi aprivano su piccole stanze dove i  seppelliti erano per di più aristocratici  torinesi di un tempo: marchesi, baroni e baronesse ecc. Poi qua e là grandi ceste piene di femori, tibie e teschi. Forse era ciò che restava di quei diseredati e criminali scalzati dalle stesse tombe per far posto ai nuovi più onorati ospiti. Le ragioni delle "mission" al cimitero erano due, legate ciascuna a una parte del gruppo. I più erano interessati all'evolversi di una storia "metapsicoparanormale" nata a Bardonecchia nelle estati del '67 e '68, che aveva visto e vedeva ancora protagonisti, il Beriuz e  Gianni il Paolo mentre il resto della banda-beat era interessato ad aprire i loculi dei patrizi alla ricerca di gemme e ori che non avrebbero mai trovato. In realtà questi ultimi erano degli accodati, coetani, affascinati dalle chitarre e dalle "storie" degli altri, ma già malavitosi. C'era la neve, era notte, si era allo scavalco del cancello in ferro con regolari punte a lancia. Uno o due alla volta, le chiome fluenti, passavano all'esterno regolari e veloci, ragazze comprese, quando a trovarsi in cima al cancello fu Ivan, detto "Motobasso", per via del suo Itom rimaneggiato, dalla sella troppo bassa, che a vederlo arrivare frontalmente pareva, la moto, senza conducente. Qualcuno gridò, sottovoceforte, "la pula"..."c'è madama". Una Giulia Super scura arrivava lenta da via Ciriè, Ivan, professione ladro, lasciò cadere dalla parte interna del cancello ciò che aveva in mano e con un balzo si dileguò con gli altri nel buio, che, nella Torino d'allora, era complice certo di qualsiasi fuga. Nevicò tutta la notte e per tutto il giorno che venne.
Si ritrovarono tutti alla Cava di via Principessa Clotilde 82. Motobasso non raccontò del gesto idiota, dell'aver tagliato la tela sopra l'altare, ne di averla abbandonata al cancello ma ne compì subito un'altro. Attaccò con un fil di ferro un teschio sopra al fanale della sua motobassa. Fermato da una pattuglia di vigili urbani fu denunciato per vilipendio di cadavere. Del dipinto la peggior fine, si dissolse nel luogo dove fu abbandonato.

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